


Barbara Andreis – Berta era solamente una bambina di nove anni quando, assieme ai suoi fratelli e sorelle più grandi, dovette lasciare la casa in campagna, sulle colline riminesi.
Era un pomeriggio caldo di inizio estate del 1944, un giorno come tanti. Gli uomini e le donne si dedicavano al duro lavoro dei campi mentre i più giovani restavano a casa, con gli anziani, per svolgere i lavori domestici. Avevano cose semplici, ma erano felici. Quella di Berta era una famiglia numerosa, di circa venti persone fra nonni, zii, fratelli e cugini.
C’era anche Ercole detto “Erculin” nel dialetto romagnolo, perché era rimasto piccolo di statura per via di una brutta malattia non curata, che lo aveva colpito da piccolo, lasciandolo debilitato nel fisico e nella mente. Ercole, aveva quindici anni, viveva nel suo mondo fantastico, rideva sempre ma aveva paura di tutto. I bambini si divertivano con lui, lo prendevano in giro, ma lui non si arrabbiava mai. Non dovevano mai lasciarlo solo, questo era il loro compito, un vero e proprio ordine che il nonno aveva dato loro. Il nonno era severo e se fosse capitato qualcosa ad Ercole, li avrebbe puniti, quindi lo controllavano sempre, senza perderlo di vista. Ercole non conosceva il pericolo, e se si fosse perso, non sarebbe stato in grado di ritrovare la strada di casa. Così lo tenevano sempre per mano, e Luigi (il fratello più grande di Berta) a volte se lo legava alla vita con una corda lunga, come un povero animale, così potevano correre veloci. Ercole era felice, per lui tutto era un gioco e non sentiva il peso di quella malattia, che lo aveva derubato dei sui anni migliori.
Berta non immaginava minimamente, nessuno lo immaginava, quello che sarebbe successo da lì a poco.
Il fronte della guerra stava avanzando su Rimini. I partigiani, segretamente, andavano durante la notte di casa in casa, dicendo ai poveri contadini di raccogliere le loro cose e scappare verso la Repubblica di San Marino dove la guerra non sarebbe arrivata, dato che era uno stato neutrale. Per gli uomini era doppiamente pericolosa, dovevano nascondersi, perché i fascisti li avrebbero presi e fatti prigionieri.
Così finirono quei giorni felici, nella campagna. Le donne di casa iniziarono dunque a preparare provviste, lenzuola, coperte, vestiti, tutto quello che poteva servire. Gli uomini prepararono due carri con i buoi, e caricarono tutto quello che gli fu possibile. Erano momenti difficili, i bambini non riuscivano a capire, mentre gli adulti sapevano, ma restavano in silenzio. I loro volti erano stanchi, rossi dal sole e dal duro lavoro dei campi. Erano giovani, avevano meno di quarant’anni, ma sembravano già vecchi, quell’angoscia della guerra, segnava il loro volto ancora di più.
Fu il momento di partire e Berta dovette salutare mamma Teresa, che sarebbe rimasta in quella casa per via dei genitori troppo anziani che non potevano essere trasportati. Teresa era una donna forte, quelle donne di una volta, fredde, lavoratrici, aveva partorito quattro figli (il quinto arrivò dopo la guerra) e non aveva mai pensato ad altro che non fosse la sua famiglia. Per mesi fu l’unica abitante, assieme agli anziani, di quella zona che era chiamata “le coste di Sgregna”. Una volta infatti, era tradizione popolare qui in Romagna, dare alle famiglie, un soprannome che li rappresentasse. La famiglia di Berta era appunto gli “Sgregna” che nel dialetto riminese “sgregna” è la risata, quella risata prorompente, incessante, contagiosa, che ti mette di buon umore e che proprio non riesci a trattenere. In effetti era gente allegra, ricorda Berta. Alla sera si ritrovavano nell’aia, e si raccontavano storie divertenti, con tanto di scenette recitate, prendendosi in giro l’uno con l’altro. Berta ricorda con affetto lo zio Gianni, detto “e sapientoun” cioè il sapientone, perché a differenza degli altri che erano completamente analfabeti, Gianni sapeva leggere e scrivere. Scriveva piccole poesie, ed era bravissimo a fare il verso degli animali. Alla domenica leggeva in chiesa ed era ben voluto da tutti. Non si era mai voluto sposare, nessuna andava bene per lui.
Ancora oggi, questa zona, è chiamata “le coste di Sgregna” e i meno giovani se lo ricordano con nostalgia.
Arrivò purtroppo il momento dei saluti, quello che non avrebbero mai voluto vivere. Berta era disperata e in un mare di lacrime. Abbracciò forte sua mamma, la staccarono a fatica, e assieme ai suoi fratelli e cugini, salì sul carro che li avrebbe condotti a casa di uno zio, che abitava al confine fra Rimini e San Marino. Viaggiarono tutta la notte, un po’ sul carro e un po’ a piedi, per alleggerire il carico ai poveri buoi che lo trainavano a fatica. Arrivarono stanchi al mattino a casa dello zio. La casa era enorme, con tutto il podere attorno e oltre a loro ospitava altre famiglie, ma solo donne e bambini, erano circa quaranta persone. Gli uomini erano nascosti e Berta ricorda ancora gli urli dei fascisti che andavano di notte a spaventarli, intimandoli di uscire. Berta era spaventata e abbracciava forte le sue sorelle più grandi, Laura e Maria, che si prendevano cura di lei, come avrebbe fatto sua mamma.
Restarono in quella casa per circa un mese, e ogni tanto arrivavano notizie della mamma, che stava bene e che presto li avrebbe raggiunti. Berta nonostante tutto, era felice, forse quell’incoscienza tipica dei bambini e l’innocenza della sua anima, la proteggevano dalla malvagità degli uomini, dalla crudeltà ingiustificata, assurda e devastante della guerra.
Nei giorni successivi, anche quella casa non fu più sicura e furono costretti a nascondersi sotto le gallerie del trenino che collegava Rimini a San Marino perché il bombardamento era imminente.
Nelle gallerie era tutto più triste, erano spariti i colori della campagna, tutto era scuro, sporco, freddo. Le migliaia di persone sfollate erano impaurite, il cibo scarseggiava e Berta ricorda che dovevano camminare ore, per arrivare ad un pozzo a prendere l’acqua. Si ricorda ancora quel sapore dell’uva che rubavano dai campi, quei grappoli preziosi che per un po’ le chiudevano quel buco nello stomaco. Avevano fame.
C’erano persone ammalate, ferite, e il ricordo dell’estate felice senza la scuola, era sempre più debole. Si sentiva sulla pelle l’odore della guerra, si quell’odore acre di esplosivo, misto alla polvere dei calcinacci, che sembrava carbone. Un’esplosione aveva chiuso parzialmente l’ingresso della galleria, c’era polvere ovunque.
Anche Berta stava male, una brutta infezione al piede le aveva provocato la febbre alta, era molto debole, non riusciva a mangiare. Le sue sorelle erano disperate. Nelle gallerie c’era confusione, panico, ma riuscirono comunque a trovare un medico, che andò a visitarla. Non c’era niente per disinfettarla, usarono il vino. Il medico le strappò letteralmente l’unghia dal dito del piede. Berta piangeva, era solo una bambina, chiamava sua madre. Ancora oggi, quando descrive quel momento così doloroso, chiude gli occhi e con le braccia si stringe a se stessa, in un abbraccio, come per recuperare quell’abbraccio mancato della mamma.
Fu proprio in quel momento che arrivò la terribile notizia. Nella notte, un raid aereo tedesco, aveva bombardato le “coste di Sgregna”, nessuno era sopravvissuto.
Berta dopo quasi ottant’anni, racconta ancora quel dolore con le lacrime agli occhi, lucidissima, come se tutto questo fosse successo ieri. Questa notizia tolse a loro tutte le speranze di rivedere e riabbracciare la mamma. Berta e le sorelle piansero tutta la notte. Si sentivano sole, impotenti, abbandonate. Arrivò anche il fratello maggiore Luigi che era nascosto in un mulino abbandonato, assieme agli altri uomini. i più grandi cercavano di confortare i piccoli, ma i più grandi poi non erano così tanto grandi, avevano 14-15-16 anni, ragazzine diventate donne troppo presto. Sensazioni miste di rabbia dolore e disperazione, il gelo sulla pelle, nonostante fuori dalle gallerie fosse un caldo Settembre.
Passarono così tutta la notte a piangere, devastati da un dolore inspiegabile per dei ragazzini. Erano smarriti, avevano perso tutti i loro sogni, la mamma, Teresa era morta, sotto le macerie della loro casa, crollata sotto i bombardamenti.
Ma, Teresa la mamma di Berta, si dimostrò ancora una volta la donna forte che era. Berta infatti diceva che sua madre “non aveva paura neanche del diavolo”. Era robusta, di poche parole, amorevole con i genitori anziani e con il marito Virgilio. Una donna semplice che non era andata a scuola e sapeva a malapena scrivere il suo nome. Ma la forza della vita è sorprendente, e quella morte annunciata con tanta freddezza, diventò vita. Si proprio così, come in un film, meglio di un film. Al mattino presto, Berta ancora in uno stato confusionario per via della febbre alta, vide sua madre spuntare in lontananza, sotto la galleria. Sì Teresa era viva. Berta raccolse tutte le sue forze, dimenticandosi anche di quel terribile dolore al piede che non la faceva camminare, e corse ad abbracciare la madre. Tutti corsero, increduli, non sapevano più se piangere o ridere, l’emozione era grande, inspiegabile. Avevano mille domande da farle. Teresa non capiva cosa stesse succedendo, non sapeva che avevano detto ai sui figli che era morta.
Teresa, il giorno prima, aveva saputo da persone rientrate dalla città di Rimini, che il bombardamento era imminente. Si armò di tutto il suo coraggio. Preparò l’unico carro che era rimasto e prese i buoi. Prese anche “quei due poveri vecchi” come li chiamava Berta, che erano impauriti, la imploravano di lasciarli lì e di mettersi in salvo, perché la loro presenza l’avrebbe solo rallentata. Ma Teresa non li volle lasciare lì a morire, soli, non esitò neanche per un attimo, e con tutta la sua forza li prese in braccio come fossero bimbi indifesi, erano un mucchio di ossa e stavano vicini, raggomitolati, due corpi consumati da una vita durissima. Caricò farina, uova, latte e lasciò la sua casa senza sapere se l’avesse mai più ritrovata al suo ritorno.
Impiegò tutta la notte per arrivare alle gallerie di San Marino, era esausta ma felice.
La famiglia di Berta si era riunita, solo gli uomini mancavano, dovevano restare ancora nascosti. Passarono così i giorni, che sembravano essere più leggeri. Poi, dopo un mese circa, la bella notizia, la guerra era finita!
La felicità fu immensa. Iniziarono ad organizzarsi per tornare a casa, raccogliendo le poche cose rimaste. Il viaggio di ritorno era pieno di speranza, i bambini emozionati. Erano tutti salvi! Camminarono un giorno intero e arrivarono a casa. Il padre di Berta, la portò in braccio per tutto il tragitto, circa quindici chilometri.
La casa era crollata per metà, ma era agibile. I soldati inglesi avevano piantato grandi tende e sistemato la cucina della loro casa. Così iniziò la convivenza con gli inglesi. Berta ricorda i loro cavalli bellissimi col manto marrone rossiccio e con una macchia bianca in fronte. Erano docili e si lasciavano accarezzare. Gli inglesi erano molto gentili e socievoli, sapevano qualche parola di italiano e gesticolando riuscivano, non si sa come, a capirsi. Regalavano ai bambini cioccolata, gallette, zucchero, cibo in scatola di ogni tipo. Nelle campagne non era rimasto più niente, erano riusciti a salvare solo un po’ di grano, il resto era tutto marcito. Anche gli animali da cortile erano spariti, avevano perso tutto.
Un po’ alla volta si fecero coraggio rimboccandosi le maniche. Di li a poco riaprirono anche le scuole e Berta iniziò la terza elementare, aveva perso un anno. Sua sorella Laura aveva imparato a cucire da una sarta, così, da un vecchio lenzuolo malridotto, le aveva cucito un grembiule. Berta era felice, e la guerra finalmente era solo un brutto ricordo. Avevano perso tanto, ma gli era rimasto il bene più prezioso, la famiglia.
Berta oggi ha 89 anni, è rimasta l’unica di cinque fratelli e sorelle. Vive in un delizioso paese in Romagna ed è amata e stimata da tutti. Berta che non si chiama Berta, dimenticavo di scriverlo, si chiama Giuliana. Suo padre, al momento di registrarla all’anagrafe dopo la nascita, preso dall’emozione, si dimenticò il nome Alberta, prescelto dalla madre, e improvvisò Giuliana. Però è sempre stata per tutti BERTA e lo sarà per sempre, Berta, mia mamma.






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