Gabriella Poli – Un amico di Facebook mi ha ispirato. “Nicola Pesce Himself” è il suo nome sui social. Scrittore e pensatore ha, tra l’altro, sdoganato il piacere e i benefici della buona tavola che solitamente i nutrizionisti, i patiti del fitness, del jogging, delle cyclette, dello sport a sfinimento in generale aborrono. Condivido in toto il suo elogio al desco che vi propongo di seguito. Diffido delle persone che non hanno mai fame o voglia di degustare un buon cibo, che non sanno riconoscere il buon vino o un liquore di rango, che dicono di non saper cucinare. La cucina è la massima espressione della cultura del territorio. Va imparata, studiata, tramandata come testimonianza di usi e costumi. I prodotti della terra sono diversificati a seconda della consistenza del terreno, del clima. Non si può fare orto in un terreno argilloso da vigneto e viceversa. Snaturare i luoghi per creare un’agricoltura intensiva cercando di cambiare il Ph della terra crea solo prodotti insapori come quelli che propone il mercato contemporaneo nel quale zucchine, pomodori, meloni sanno di… niente. Ecco dunque l’intervento del mio ammirato “Nicola Pesce Himself”.

“Ma quanto mi piace mangiare!
Qualunque tristezza io abbia mai avuto ho potuto ignorarla almeno un’ora tutte le volte che ho mangiato. Mi piace prendermi cura di me stesso e dei miei piccoli vizi. A casa mia nessuno aveva più voglia di campare, e dai miei zero ai miei vent’anni, a pranzo abbiamo mangiato sempre pasta e patate il lunedì, pasta e fagioli il martedì; pasta e lenticchie il mercoledì… e così via… e poi pasta asciutta tutte le sere. Come se una divinità malvagia avesse deciso che non dovessimo goderci la vita. Ero convinto che fosse la normalità. Ho scoperto a 25 anni che esisteva un piatto come broccoli e salsiccia, e quando ho mangiato una carbonara in trasferta mi suonava come un piatto esotico. Adesso invece mi prendo cura di me. Scelgo con cura i miei ingredienti. Mia madre ha deciso di cominciare un orto, un’amica di famiglia mi porta le uova delle sue galline, io ho piantato i miei alberi da frutto. Guardo come si cucinano le cose, imparo, impasto la farina, parlo di ricette con le vecchiette, invento un piatto a settimana. E questa non è cucina, amiche mie, amici miei. Questa è vita. Questa è la vita che dall’alto dei cieli, che dalle radici degli alberi sottoterra si infila nelle mie vene passando per i piedi. È voglia di esserci. Trovare una cosa buona da bere, studiarne la provenienza, il modo in cui viene fatta, annusarla a lungo, è cultura. È cultura nel senso più alto del termine. È una cultura che un Goethe, un Leopardi, un Dostoevskij non avrebbero saputo contestare, e avrebbero bevuto con me, mangiato quel che cucinavo. Avrei detto a Kafka di tagliarmi i pomodorini intanto che preparavo le vongole. E lui lo avrebbe fatto con gioia. Non c’è mai stato un dolore, mai, che un piattone di ceci e lagane fatte in casa non abbiano saputo zittire per almeno un’ora. E se qualche volta supero i cento chili, pazienza! È più bello vedere una persona sana, un sorriso sereno, che una pancia piatta. E come lo sanno tutte le religioni ora lo so anch’io che è intorno alla tavola che si rinsalda la famiglia, l’amore, la voglia di stare a questo mondo. Chi non cucina, non sa cosa vuol dire amare sé stessi”.

Come non essere d’accordo caro Nicola Pesce Himself!


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