


Gabriella Poli – Grazie ad Annalisa Franzon che ha scritto, in un articolo precedente, dell’importanza dei settenni, ho invitato i corsisti a descrivere i loro primi sette anni, me compresa.
I miei primi sette anni sono contraddistinti dai “perché?”. Ricordo che fin da piccola mi interrogavo sul significato delle azioni degli altri, adulti o bambini che fossero.
La serie infinita dei quesiti verso gli umani è tuttora in parte irrisolta.
Ho molti ricordi sin dalla prima infanzia e riportarli tutti sarebbe un’impresa impossibile, oltre che noiosa per chi legge. L’elenco lo tengo stretto nel mio diario personale. Comunque ordinare i ricordi del primo settennio, come insegno ai corsisti, può tornare utile per rispondere ai tanti perché delle scelte, giuste e sbagliate, della vita successiva. Ne riporto quindi meno di una manciata.
Nelle primissima infanzia, 2/3 anni, vedevo mamma che, tutte le sere a una certa ora, si nascondeva, nell’armadio o nella cassapanca. Papà Renato rientrava subito dopo e iniziava a cercarla. Io con lo sguardo indicavo il contenitore nel quale era e lui la chiamava dolcemente: “dove sei Giuliana?”. Lei zitta. Allora lui apriva dove io avevo indicato e la trovava. Si abbracciavano e baciavano. Era il gioco rituale della sera di due genitori bambini, ventenni, che non volevano crescere e che, in effetti, non sono mai cresciuti.
Un altro gioco era quello delle domeniche d’estate quando andavamo dai nonni paterni ai Noci di Corte de’ Frati, un piccolo paese in provincia di Cremona dove abitavano. Papà ci portava in bicicletta al fiume Oglio. Poi lo attraversava, con me in braccio e mamma per mano, sfidando correnti e mulinelli. Non c’era un perché. Semplicemente una sfida al fiume e una prova della sua intraprendenza a mamma. Raggiungevamo l’altra sponda e poi si tornava indietro.
In seguito, all’asilo 4/5 anni ancora quesiti. Mi chiedevo come mai nella ricreazione i bambini saltassero e urlassero. Li guardavo seduta solitaria su una panchina. Evidentemente il mio sguardo interrogativo li infastidiva, forse si sentivano stupidi. Tant’è che uno di loro, il bullo Diego, ad un certo punto incominciò a tirarmi pugni sul pancino e mi impedì di sedermi. La maestra, che maledico per la sua ignoranza, guardava senza intervenire.
Non volevo più andarci all’asilo ma mamma non capiva. Le tate che si avvicendavano ad accompagnarmi venivano da me depistate e quindi, arrivando in ritardo, dovevano riportarmi a casa. All’epoca c’erano diverse tate a mia disposizione perché mamma aveva un laboratorio di sartoria, le apprendiste venivano dai paesi vicini e non conoscevano la mia città natale, Brescia. Ecco perché era così facile per me far loro sbagliare strada. Dopo qualche giorno però mamma venne all’asilo di nascosto per osservarmi e capire. Quando vide la scena dei bulli mi portò via subito e mi tenne a casa per gli anni successivi, fino alle elementari.
Passavo le mie giornate guardando dalla finestra cosa succedeva nella trafficata via della Pace, nel centro città dove abitavamo. Vedevo passare la filovia che proprio in quel punto iniziava una manovra azzardata dovendo girare a sinistra in una curva a gomito sfiorando la fontana della Pallata che stava proprio sotto l’omonima torre all’angolo e, all’epoca, elargiva una sublime acqua cristallina ferruginosa.
Vedevo gli avventori della latteria di fronte. I ragazzi dell’oratorio della chiesa della Pace. Quando mi stancavo di guardare dalla finestra sbirciavo nel laboratorio i segreti del taglio e della confezione. Mamma con le misure delle clienti disegnava il modello su carta di giornale, lo ritagliava e lo puntava con gli spilli sulla stoffa. Poi lo contornava col gesso, tagliava il tessuto e lo faceva imbastire dalle apprendiste. C’era la prima prova e poi via alla macchina da cucire, allora ancora a pedale. Così ho imparato a cucire, osservando e imitando, bucandomi anche le dita con la vecchia Necchi.
Due parole per la nonna Orsola detta Lucy e poi chiudo.
Lucy abitava abbastanza vicino a noi. Ero molto spesso da lei che con nonno Italo, grande viaggiatore (aveva cantieri idraulici in tutto il mondo: Argentina, Arabia saudita, Congo belga, Kenia, Somalia, Etiopia, …), mi accudiva. Ricordo con quanto amore mi pettinasse accarezzandomi i capelli. Poi mi portava in piazza della Loggia, lì vicino, dove c’erano i colombi, una quantità di piccioni che si facevano fotografare mentre i passanti elargivano granaglie.






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