


Lucio Matania – In via Piatti, a Milano, c’è lo storico circolo di scacchi.
Lo so perché l’ho cercato sulle pagine gialle. Al telefono non risponde nessuno.
È domenica. Magari giocano, ci vado, è il mio compleanno. Una data importante. Oggi sono maggiorenne.
Da casa mia a piedi è una ventina di minuti.
Devo attraversare piazza del Duomo, il circolo è a due passi ma c’è la solita manifestazione con tanto di lacrimogeni, gente che corre con fazzoletti per ripararsi gli occhi, poliziotti e manifestanti, scoppi, urla. Uno scenario che ormai si ripete ogni fine settimana. Non demordo.
È da un pò che ci voglio andare, avevo sentito da Ugo, il mio compagno di banco al serale, l’incredibile storia di Fischer, e il mio spirito di sfida mi diceva: devo imparare questi scacchi.
Sapevo solo che era un gioco antichissimo, mentale, difficile, e che i campioni erano sempre stati personaggi strampalati e geniali, fuori da schemi, fantasiosi ma con una logica ferrea.
E tutto questo mi affascina.
Il circolo è a piano terra, si entra direttamente dalla strada. Un grande salone. Come immaginavo è in svolgimento un torneo. Una scena irreale mi si para davanti agli occhi.
Una trentina di tavoli tutti occupati da giocatori. Il silenzio sarebbe assoluto se non ci fosse il ticchettio incessante degli orologi, anch’essi di legno. Una nebbiolina acre anche qui.
Non sono i lacrimogeni, molti stanno fumando.
L’arredo è tutto di legno. Una cattedra, un tabellone con la scacchiera da muro, tavoli, sedie, scacchiere, pezzi, armadi, vetrine, librerie strapiene di libri, coppe, medaglie, trofei. Nell’unica parete libera, anch’essa affumicata, si susseguono i quadri dei 12 campioni del mondo, l’ultimo è Karpov, il penultimo Fischer. Mi aggiro tra i tavoli senza fare il minimo rumore, soffermandomi ad osservare le partite.
Non ci capisco nulla, ma che diavolo di gioco infernale è?
Sono tutti maschi, di ogni età. Intuisco che nel tavolo contrassegnato col numero 1 stanno giocando la partita i due più forti.
Non mi schiodo da lì. Dopo ogni mossa subito viene schiacciato un pulsante sull’orologio e trascritto qualcosa su un foglietto a righe, una specie di formulario, deduco la sigla della mossa. Ci sto fino alla fine. Il più anziano ha vinto e stringe la mano al più giovane. Mettono a posto gli scacchi. Consegnano all’arbitro i due formulari firmati. Escono entrambi sorridendo. Li seguo. Fuori commentano la partita. Il vincitore ha un forte accento straniero, forse dell’est. Russo? No, forse polacco, seguendo il discorso da una discreta distanza sento che il più giovane lo chiama “Maestro Rubinstein”.
A un certo punto Rubinstein mi guarda e mi chiede, additandomi, con la sua voce alta, particolare : ” Tu! Visto seguire partita! Cosa pensare sacrificio cavallo a mossa 21?”
Io gli rispondo: “non lo so, non so nulla, è la prima volta in vita mia che ho visto giocare a scacchi” .
Siamo scoppiati tutti e tre a ridere.
Il più giovane ha subito proposto: “andiamo a casa mia a farci una birra, ti insegnamo noi, abito qui dietro, i bar sono tutti chiusi per la manifestazione”.
Li seguo entusiasta.
Il più giovane è ancora oggi un mio caro amico, purtroppo Alfred Rubinstein, grandissimo maestro di scacchi tedesco, è morto nel 2000, 25 anni fa. Pochi mesi dopo questo episodio, a ottobre del 1979, tre ragazzi tra cui io presidente, fondiamo il circolo itinerante “Amici per gli Scacchi” (tra l’altro affiliato all’Accademia Ars Artis), tutt’ora in forze, un sodalizio oggi di 70 soci, alcuni non più ragazzini, con un’idea ancora romantica nel cuore.





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