Gabriella Poli – Il mio amico Virginio Telò, grande giornalista e scrittore, che ha attraversato il fiume Oglio qualche anno fa, mi ha dato un’idea straordinaria. Dopo aver letto il suo magistrale racconto sui nonni ho pensato che fosse giusto ricordarli, nero su bianco. Altrimenti la loro memoria si perderà con me, figlia unica. E mio figlio Simone non saprà mai chi fossero i miei bellissimi nonni.






Li ho conosciuti tutti e quattro: Simone e Adele, Italo e Orsola e una bisnonna, Luigia detta Bigia, da parte di mio papà Renato. Gli altri bisnonni, morti prima che nascessi, mi sorridono dalle loro fotografie. Sono solo brevi flash. Ricordi. Non si possono riassumere vite complesse, come quelle di tutti noi, in una decina di righe. Per le famiglie semplici non esistono alberi genealogici e ritratti nobiliari, scritti che ricordino le gesta e le vite degli avi. Così sta a noi ricordare chi non c’è più per, la futura memoria di chi ci seguirà. Gli antenati costituiscono il nostro DNA, sia fisicamente che psicologicamente. Negli oggetti che ci hanno lasciato si racchiudono i loro sentimenti. Così, mobili grandi e piccoli, lenzuola del corredo con le iniziali, gioielli o semplici scatole di legno testimoniano la loro presenza. E fanno affiorare sensazioni, sapori e profumi. E’ un pensiero che, cominciando dai nonni potrebbe essere esteso anche ad altri parenti che hanno segnato amorevolmente la nostra vita e che ora non ci sono più, zii, genitori etc. . Un modo per celebrarli e arricchire il nostro cuore e quello dei nostri discendenti. Per non dimenticare.
I NONNI PATERNI e la Bisnonna Luigia detta Bigia
Nonno Simone Poli, Simòn – Il suo nome, come era tradizione un tempo, è stato dato a mio figlio. Lui e nonna Adele vivevano a Noci, una piccola frazione di Corte de’ Frati, nella bassa cremonese, dove erano proprietari di una casa di corte e gestivano, al piano inferiore, una osteria con cantina e bottega alimentari annessa, l’unico punto di riferimento per gli abitanti delle cascine intorno. Qui vivevano con le due figlie femmine Lina, la più grande e Chiara, detta Chiarina, la più piccola che ha solo pochi anni più di me, e, du figli maschi, mio papà Renato e lo zio Ermanno.
Qui, nelle terre basse, bagnate dal fiume Oglio, i miei genitori – bambini (18 anni Giuliana e 22 Renato, quando sono nata), che abitavano a Brescia, mi lasciavano di tanto in tanto per trascorrere qualche settimana di vacanza.
Nonno Simone era un “ragazzo del ’99”. Uno di quei ragazzini che a 16 anni erano stati spediti in prima linea sul fronte della Grande Guerra. Una guerra assurda, come tutte quelle volute per le speculazioni di conquista dei potenti, che continuano a sacrificare giovani vite.
Spesso cercava di raccontare ai figli gli orrori vissuti. Non so perché ma nessuno lo ascoltava, quando iniziava a ricordare tutti lo zittivano, come se avessero sentito quegli episodi innumerevoli volte. In realtà nessuno dei suoi figli ne sapeva nulla. Alla fine lui non parlò più.
Me lo ricordo vestito elegante giacca, gilet e cappello, seduto accanto al grande camino che c’era nella prima sala dell’osteria.
Silente, apriva bocca solo per avvertire la nonna o le figlie quando entravano gli avventori. Nella bottega invece era lui che serviva spesso i clienti.
C’era di tutto nella bottega. Le specialità che allora erano genuine: i formaggi e il burro della latteria di Soresina, i salumi più squisiti delle tante cascine dei dintorni, il torrone, il pan di Spagna, il pan biscotto vanigliato, la farina integrale del mulino, le uova del pollaio, la pancetta e i salami che insaccavano una volta l’anno, quando si compieva il rito dell’uccisione del maiale.
Al di là del cortile c’erano le stalle delle vacche da latte, che lo zio Pino (fratello della nonna) raccoglieva nei caratteristici bidoni e portava alla centrale ogni mattina. Molte volte l’ho accompagnato. Ci si alzava alle 5 e lui era già pronto sul carro trascinato da due cavalli. Ero piccola, forse 5 anni, salivo e dopo un po’ mi addormentavo sul suo tabarro. Ma nel dormiveglia sentivo gli scossoni del carro e i comandi che lui impartiva ai cavalli. Quei suoni e le atmosfere nebbiose e magiche della bassa rimangono ancora oggi ben impresse nella memoria.
Forse hanno segnato il mio carattere introverso incline all’immaginazione e al sogno.
Il nonno era un musicista. A Cremona è tradizione studiare musica. Lui era andato al Conservatorio dove aveva imparato a suonare il violino, il pianoforte e il flauto. Aveva anche imparato a dirigere l’orchestra. Nella grande camera da letto dei nonni in un angolo c’era un salotto del ‘700 e tutti gli strumenti musicali che a un certo punto sparirono. Non ho mai capito che fine abbiano fatto. Ho trovato fra le cose di papà Renato un flauto, che originariamente aveva l’imboccatura d’argento, di cui però è rimasta solo la parte di legno. Al mio matrimonio nonno Simone mi ha regalato un’alzata di cristallo porta confetti dicendomi che quella era un dono di Toscanini, quando suonava nella sua orchestra. Che peccato non avere mai chiesto al nonno di raccontarmi della sua musica! Che peccato che non abbia tramandato a figli e nipoti niente della sua arte!
Nonna Adele Sissa – era una bella donna coi capelli lunghissimi intrecciati e raccolti in uno chignon. Fisicamente le somiglio molto. Era una cuoca straordinaria. E cucinava i “marubin” (pasta ripiena tipica della bassa cremonese), la gallina ripiena con l’amaretto, la frittata con le erbe, alta come una torta e sublimi polpette di carne. Il sapore del ripieno della nonna Adele è indimenticabile. Quando cucinava la gallina per noi, lei non la mangiava mai perché quella gallina la conosceva bene, l’aveva allevata fin da quando era pulcino e nutrita e amata come un altro qualsiasi animale da compagnia. E dunque quando le doveva “tirare il collo”, per imbandire la tavola della domenica per i figli, per lei era una tragedia. Quando ero ai Noci nonna Adele mi svegliava prestissimo perché “carin v’èeee” era considerato peccato poltrire. Nonna, naturalmente, era sveglia dall’alba, aveva già accudito le galline, preso l’acqua dal pozzo e riempito il contenitore vicino alla cucina economica, oltre alle brocche accanto ai catini nelle camere da letto dove potevamo lavarci. Osteria e bottega in ordine, corte spazzata. Quando scendevo c’erano i contadini che facevano colazione polenta fritta, pancetta, uova. D’inverno faceva freddo nei campi e si lavorava sodo. Nonno Simone per me preparava la colazione col latte e il pan biscotto alla vaniglia o il pan trito. Non avevo fame e non volevo mai mangiare (magari fosse così anche ora…) allora si inventava cose diverse, l’uovo sbattuto con lo zucchero o lo zabaglione. Quando lo faceva col marsala la nonna lo sgridava perché “non si poteva certo darlo a una bambina”, così se lo mangiava tutto lui… .
La mia bisnonna Luigia Messi detta Bigia era la mamma di nonna Adele abitava ad Aspice, un altro paese della Bassa. Era piccola e minuta e viveva con suo figlio, lo zio Marino Sissa, che era stato in campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale. Morirono tutti e due che ero molto, molto piccola. Li ricordo vagamente perché mio papà Renato mi aveva portato da loro solo qualche volta per un saluto.
I NONNI MATERNI
Nonno Italo De Andreis era originario di Rivoltella, sul lago di Garda. Era un imprenditore ma soprattutto un grande viaggiatore. Prima che io nascessi aveva viaggiato in tutto il mondo dove collaborava alla costruzione di impianti idraulici in Kenia, Eritrea, Etiopia, Libia, Algeria, Arabia Saudita, Argentina. Era un uomo molto elegante che amava le scarpe inglesi e le giacche di pecari, i Borsalino. Un “à plombe” ereditato dalla sua famiglia che vantava nobili origini con tanto di stemma originale datato 1506 nel quale i suoi avi oriundi della Spagna erano stati insigniti per servigi resi al Re.
Italo era un grande seduttore e faceva morire di gelosia nonna Orsola, che lasciava sola per mesi e mesi quando viaggiava per il mondo. Tornò dall’ultimo viaggio solo quando fu informato del prossimo matrimonio della figlia, mia mamma Giuliana, che lui adorava. I racconti delle avventure di viaggio di nonno Italo sono memorabili e ricordate con piacere anche dalle mie cugine Barbara e Miranda, figlie del fratello di mia mamma, il mio adorato zio Renato. Nonno Italo mi soccorre sempre quando i miei sogni sono incubi. E’ presente per rassicurarmi.
Nonna Orsola Piacentini era nata a Malpaga, in provincia di Bergamo e quando aveva sposato Italo si erano trasferiti a Brescia. Era snella con gambe magnifiche e assomigliava moltissimo a Laura Antonelli. Aveva un buon profumo di menta che mangiava in abbondanza per nascondere l’odore del fumo, perché era una grande fumatrice. La chiamavano Lina come diminutivo di Orsolina. Ma il nonno Italo la chiamava amorevolmente Luci. Aveva avuto 2 figli: mia mamma Giuliana e mio zio Renato.
Ero quasi sempre a casa dei nonni Italo e Orsola, mi piaceva stare con loro perché mi coccolavano. Quando andarono ad abitare a Rimini, avevo circa 10 anni e passavo lì tutte le vacanze.
Ogni giorno con l’automobile del nonno Italo si andava a visitare città storiche e paesi murati dove nonna Orsola mi raccontava leggende e accadimenti ambientati i quei luoghi.
Alle gite si alternavano i pomeriggi al cinematografo dove la nonna amava vedere i film-rivista americani che venivano d’oltre oceano e i drammi d’amore e morte del cinema italiano con attori come Amedeo Nazzari, Anna Magnani etc.
Nonna Luci era curiosa della vita e voleva sempre visitare luoghi vicini e lontani. E’ stata per me, quando ero piccola, come una seconda mamma dato che mamma Giuliana era così giovane che ancora giocava a nascondino con papà Renato. Nonna Orsola viene da me nel dormiveglia quando sono ammalata e cerca di scacciare il dolore che mi affligge.
Categorie:Racconti brevi