Gabriella Poli – L’amore è cristallo che può diventare ghiaccio. Brave disegnava appoggiato al bancone della cucina.
«Cos’è, una vela? »
«No. La mia vita…»
«Appunto, una vela…»
L’uomo fissava il depliant giallo del Master in management artistico sul quale aveva disegnato il grafico della sua vita, della sua “guerra” con due date fondamentali: ‘68 – ’98, ovvero, da zero a zero. In mezzo, un picco altissimo. Poi la rapida inesorabile discesa. Tornava dalla sua settimanale battaglia politica romana, Brave, ed era furibondo. Beatrice non lo sentiva da due settimane, non lo vedeva da due mesi, non lo amava da due anni. Lui l’aveva scovata nella nuova casa dove si era trasferita da poco, un grande loft al centro di Milano nel quale la donna si sentiva un po’ artista, un po’ sognatrice. In realtà era sola, molto sola e stava invecchiando. Brave posò quell’odioso sigaro e le si accostò, spingendola verso il mobile della cucina, cercando di toccarla. Senza togliersi il cappotto.
«Non ti amo più Brave, non posso…»
«Cosa c’entra?» – ghignò disgustosamente – ma gli occhi erano persi e disperati. Tornava dalla guerra romana, era furibondo e, ora, era anche perso. Ma, sentendosi ferito e umiliato si sfogò.
«Come ti sei ridotta… in un magazzino, una scala in ferro, un cavalletto da pittrice, la porta del garage in casa. Chi credi di essere, una diva del cinema? Sembra un set del “Viale del Tramonto…”. Ma perché non ti sei presa due belle stanzette, un salottino, una camera con un letto accogliente. Stavi lì, mi aspettavi, invece no, lei fa la matta, l’artista, disegna le barche. Con la vela…»
«Come te…»
«No, quella è la mia vita, la mia guerra. Sì, da zero a zero. È freddo, baciami!»
«Non posso, non ti amo più…»
«Sei una stracciona, vado…»
Brave infilò, imprecando a voce alta, la porta d’ingresso, attraversò il cortile per raggiungere l’autista che lo aspettava con le body guard in strada, fuori da quel loft, set, garage, dove aveva cercato e bramato Beatrice, quella che lui considerava fissa, che lo aveva lasciato da due anni ma che l’uomo continuava a considerare di sua proprietà.
Beatrice lo aveva amato davvero. Era la donna scarlatta, dalla quale prendeva energia, respiro, calore, parole, pensiero, quando tornava avvelenato dalla capitale, dove combatteva battaglie politiche e umane durissime. Beatrice adesso, per lui, era di cristallo, impenetrabile.
Bea quella notte, dopo che lui se ne era andato, ricordò Firenze, dove si erano incontrati cinque anni prima, e la camera dell’hotel dove si erano amati per la prima volta. Da Firenze al loft, da zero a zero, come la vela di Brave. Cinque anni passati a rincorrersi da un albergo all’altro, da un congresso all’altro. Avevano combattuto insieme fino a quel momento, in tanti letti differenti dove avevano sofferto, pensato, scritto, litigato, dormito abbracciati. Ogni notte aveva ispirato la battaglia da combattere il giorno successivo. E più questa si prospettava aspra più Brave voleva Bea per straziarla, godere di lei, prendere energia dal suo sesso e dal suo amore incondizionato, dal suo cervello, dalla sua bocca, dai suoi occhi… .
Firenze dunque, Beatrice, quella sera, era tornata prepotentemente con il ricordo al primo incontro con Brave. La camera era piccola e la donna si stava facendo la doccia quando sentì bussare insistentemente. Era notte fonda.
«Chi è? »
«Sono io, Brave»
Impossibile, uno scherzo, aveva pensato lei. Non poteva essere davvero lui, il grande capo del PN, il Partito Nuovo, per il semplice fatto che quell’uomo potente e meraviglioso non si sarebbe mai accorto di lei al punto da venirla a cercare in camera sua. L’aveva conosciuto personalmente nel pomeriggio e aveva anche cenato al suo fianco, affascinata come tutte le altre donne che lo circondavano. Lui le aveva chiesto il numero della stanza al momento della buonanotte, dopo averla gratificata di una divertente performance canora, nella hall dell’albergo, a base di serenate. Ma si era trattato di una semplice battuta che lei si era guardata bene dal raccogliere. Qualcuno dei congressisti però, pensava Bea, doveva averla sentita e, adesso si divertiva a prenderla in giro.
«Sto facendo la doccia, non posso…» – tagliò corto Beatrice, riaprendo i rubinetti dell’acqua.
«Dai apri, fammi entrare non posso restare nel corridoio, mi potrebbero vedere…».
Questa volta lei si convinse che era davvero Brave, trattenne il respiro e nella manciata di secondi che seguirono decise il suo destino. Beatrice sapeva poco di politica e non se ne era mai interessata seriamente. Nata e cresciuta in provincia, una laurea in Scienze della comunicazione con il dottorato in giornalismo, un figlio e un matrimonio fallito alle spalle, era una donna molto attraente nel pieno della maturità nella quale era entrata anche sessualmente solo sei sette anni prima, dopo essersi liberata degli ultimi residui della cultura maschilista nella quale era stata cresciuta all’insegna del piacere femminile come equivalente del peccato. Da allora Beatrice era alla ricerca di un equilibrio interiore a cui ancorare la sua natura inquieta che, dopo il divorzio, passando attraverso il giornalismo di provincia, l’aveva spinta sulla soglia del Partito Nuovo nel momento in cui serviva qualcuno per organizzare l’ufficio stampa.
Travolto dal successo, il PN reclutava i quadri in fretta e furia badando più al mestiere che all’ortodossia ideologica e Beatrice aveva accettato, soprattutto attratta dalla nuova sfida professionale. In questa veste si trovava al congresso di Firenze e aveva conosciuto il grande capo, Brave, del quale non sapeva assolutamente nulla se non ciò che era già di dominio pubblico attraverso i media che ne avevano accompagnato l’ascesa dirompente degli ultimi cinque anni, legandola indissolubilmente al successo del suo movimento politico.
Ma, nel pomeriggio di quel giorno, quando l’aveva ascoltato per la prima volta, seduta in prima fila nella sala dei congressi gremita, Brave l’aveva colpita al di là della normale soglia di attenzione. Lo aveva sentito tuonare dal podio e la sua voce le rimbombava nello stomaco. La voce roca che le dava i brividi, lo sguardo acceso col quale egli sembrava rivolgersi solo a lei, il tono appassionato con cui esponeva concetti, che Beatrice non era in grado di valutare criticamente a fondo ma che suonavano come la manifestazione di un animo limpido e tormentato al tempo stesso, capace di volare in alto pur parlando alla gente semplice, pronto a combattere per le proprie idee fino al sacrificio, ma anche capace di tenere in pugno il potere di comando per il bene comune. Bea era rimasta molto toccata, tanto che, pur non essendo mai stata una fanatica del PN, non si era sentita estranea in quel luogo quando si era accorta che, attorno a lei, taluni piangevano, sinceramente commossi dalle parole del leader.
Brave le era apparso improvvisamente bello di una bellezza sfolgorante e irresistibile. Bello, adorabile, desiderabile e irraggiungibile. Per questo, quando al momento della buonanotte lui aveva motteggiato a proposito del numero della sua stanza, lei non aveva potuto pensare che a una facezia ed era stata al gioco della convenienza anche se in cuor suo il numero glielo avrebbe dato volentieri.
Ma adesso Brave era davvero lì, a due passi da lei sul corridoio e la cercava. Li separava solo una porta che le bastava aprire. Ingenuamente affascinata ma niente affatto ingenua, Beatrice seppe subito cosa avrebbe potuto significare l’apertura di quella porta e il cuore accelerò i battiti mentre nel suo animo si contrapponevano il “sì” e il “no”. Vinse il “sì” in forma plebiscitaria. Andò ad aprire e schizzò di nuovo sotto la doccia mentre Brave entrava e aspettava nella stanza. Quando uscì avvolta nell’accappatoio il battito cardiaco era tornato normale.
«Sono venuto a prenderti per andare in discoteca…» – l’invitò Brave senza molta convinzione.
Beatrice incrociò lo sguardo di lui e capì di essere già sul proprio terreno di gioco. Doveva solo decidere se giocare o meno e l’idea di farlo con lui le provocò un brivido di eccitazione. Finse di rilanciare.
«In discoteca a quest’ora? Ma sono quasi le due…»
«E allora?…» – Brave non sembrava disporre di un ventaglio molto ampio di parole per chiederle esplicitamente ciò che voleva anche se lo portava scritto in fronte. Avrebbe dovuto essere lei a toglierlo d’impaccio. Elaborò il piano in un lampo.
«Va bene, mi vesto…» – disse e afferrò alcuni indumenti appartandosi di nuovo. Ma ne indossò solo due, intimi, minimi ed essenziali poi tornò nella stanza e, con spontanea noncuranza, gratificò Brave della più lenta, accurata, meticolosa vestizione di donna cui mai gli fosse stato dato di assistere. L’esatto contrario di un banale spogliarello. Ottenne un successo strepitoso. A mano a mano che procedeva nei suoi movimenti verificandone l’effetto, Beatrice si sentiva invadere da uno strana euforia, come se stesse scoprendo di possedere un fascino e un potere più grandi del fascino e del potere di Brave.
Era lusingata, strabiliata e eccitata al tempo stesso. Poco importava se nel frattempo la loquacità di Brave andava aumentando in misura inversamente proporzionale alla qualità del suo eloquio. A quel punto avrebbe potuto anche grugnire perché nel frattempo la tensione erotica tra di loro era salita alle stelle, tanto che, quando fu pronta per uscire e lui la strinse finalmente fra le braccia baciandola sul collo, le parve di essere attraversata da una scarica elettrica. Poi tutto accadde affannosamente e velocemente. Sconosciuti l’uno all’altra ma complici semplicemente verso l’attimo successivo, senza problemi, senza progetti, finalmente liberi di assaporare il presente.
Lui era irresistibile e sexi con quello strabismo di Venere che gli dava lo sguardo da cucciolo, l’aria trasandata e la voce che sussurrava roca e la faceva spasimare. Albeggiava quando lei si sentì improvvisamente stanchissima.
«Basta adesso devo dormire…»
Brave avrebbe voluto continuare ma lei dovette insistere.
«Mi hai distrutta, sono esausta…»
Il riconoscimento della propria virilità, solleticò la vanità di Brave al punto da appagarlo definitivamente inducendolo a lasciare la stanza.
Prima di piombare nel sonno Beatrice abbozzò un rapido bilancio delle ultime ore. Si sentiva sfinita ma non sazia. Se non avesse avuto palpebre così pesanti non le sarebbe dispiaciuto ricominciare. Brave, che uomo fantastico! Il pensiero di lui la faceva sentire soddisfatta e sicura di sé. Vincente. L’unica cosa che non riuscì a valutare appieno, mentre chiudeva gli occhi, fu il fatto più importante, quello che tanto avrebbe influito sui suoi giorni a venire: con quella notte infuocata lei era diventata la donna del capo. La donna del grande capo assoluto del Partito Nuovo.
Il giorno dopo era partita presto senza lasciare recapiti, credendo che il capo non l’avrebbe cercata. Invece Brave, dopo una brevissima indagine, l’aveva rintracciata. Potenza del potere. E da quel momento per i successivi e decisivi tre anni, lei lo aveva disperatamente amato e protetto. Lui l’aveva usata, straziata e protetta.
Firenze dunque. Tappa importante per entrambi. Per Beatrice, l’amore. Per Brave era la prima tappa del piano “V” come “vecchi”, quelli che sapevano chi era e da dove veniva, che lo avevano aiutato dagli inizi della “guerra” a vincere le prime massacranti battaglie. Il piano “V” era eliminare i capi storici dei vari territori nei quali il Partito Nuovo aveva preso piede.
Tutto era già calcolato. Beatrice per Brave era uno dei mezzi per avere notizie dal territorio ed eliminare coloro che potevano minacciare la sua leadership. Semplicemente per il suo mito. Brave e il suo mito, la sua gelosia, l’invidia, l’avarizia, la grettezza, il sadismo, tutto si delineava per costruire un perfetto dispotico dittatore.
Da Firenze a Genova, a Venezia, a Torino. L’attacco era sferrato contro Veneto, Liguria, Piemonte dove i “vecchi” che sapevano cercavano di allearsi per respingere l’assalto all’ultimo sangue di Brave. Lui li minava alla base, li ridicolizzava sarcasticamente, demoliva la loro immagine, destabilizzava il loro potere dando incarichi diretti ai loro sottoposti, telefonando, la notte, alle loro donne: segretarie, centraliniste, militanti. La tattica era la stessa, sempre.
Avvicinava le persone più semplici e onestamente ingenue che si sentivano onorate e investite di chissà quale missione, attingeva informazioni, diffondeva malumore. E vinceva, sempre. Tra alti e bassi aveva vinto, sempre.
Beatrice aveva dato il cuore e l’anima e soffocato spesso il senso etico che in lei era molto forte. Poi non ce l’aveva fatta più e, anche se lui non lo voleva accettare, l’aveva lasciato, ed era tornata a rifugiarsi sul suo lago, limitando al lato professionale le frequentazioni milanesi.
(continua 3)
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