Gabriella Poli – Beatrice amava guardare il lago in tempesta attraverso la grande vetrata del soggiorno. La villa sulla collina, tra i vigneti, godeva di una vista spettacolare. Vi si era trasferita una ventina di anni prima, giovanissima, dalla vicina città insieme al marito Luc, un artista dai tratti nordici e dallo spiccato talento per la pittura e il design con il quale condivideva l’amore per l’ambiente naturale. Si era stabilita in questo pittoresco angolo di territorio subito dopo il matrimonio realizzando un sogno che coltivava fin da bambina: una casa in collina vista lago.
Luc era fantastico allora. Capelli biondo svedese, occhi azzurro ghiaccio come sottili fessure penetranti. Veniva da una famiglia di artisti famosi. Il nonno e il bisnonno avevano gestito la più importante bottega d’arte della vicina Brescia e, il padre, era un affermato artista della brescianità.
Il ragazzo dimostrava un talento innato per il disegno ed era interessato al design e arredamento di interni. Prometteva bene dal punto di vista professionale ma caratterialmente era un sognatore sensibile e ribelle con poca organizzazione e ben presto si era scontrato con la quadratura di Beatrice, un’organizzativa imbattibile con la tendenza a “dirigere i lavori”.
Il rapporto con Luc era durato sette anni, intensi e proficui dal punto di vista economico, ma sentimentalmente poco felici. In quegli anni Bea lo aveva amato, odiato, ignorato, aveva messo al mondo un bellissimo bambino e aveva infine capito che quel matrimonio non faceva per lei. Il ragazzo dai capelli biondissimi e dagli occhi azzurro acqua di cui si era innamorata si era rivelato incompatibile con la sete intellettuale di Beatrice che ambiva a confronti e traguardi sempre più arditi e, ad un certo punto, aveva deciso di percorrere la sua strada senza di lui. Dopo il divorzio aveva ripreso la sua professione di giornalista, sospesa durante quei primi anni di matrimonio anche e soprattutto dedicati all’infanzia del suo piccolo. Non le era stato difficile, data l’intraprendenza, ottenere consensi e contratti con quotidiani, riviste ed emittenti radio televisive. Nemmeno in campo sentimentale le conquiste le erano mancate.
Con gli anni la sua bellezza si era definita. Alta e ben impostata, aveva un portamento elegante e una sensualità raffinata. I capelli neri, sempre più lunghi, le scendevano fin oltre la vita con un risultato molto seducente. Gli uomini la ammiravano e la corteggiavano anche se la sua avvenenza sembrava paradossalmente ostacolare la carriera. Almeno nel modo in cui lei avrebbe voluto procedere. Il connubio bellezza e intelligenza nella società maschilista in cui viveva non era apprezzato e così, a lei, era sempre sembrato di non essere tenuta abbastanza in considerazione per la sua professionalità, finendo per slegarsi quasi completamente dai rapporti interpersonali non strettamente necessari, riducendo all’osso le sue frequentazioni.
Anche adesso che era ormai una donna matura, che aveva girato mezzo mondo, frequentato quella che si usava definire l’alta società internazionale e intrecciato relazioni sentimentali con uomini famosi, ciò che preferiva fare era starsene lì nella sua casa a guardare il lago e ad ascoltare le mille voci della natura che giungevano sulla collina. Da qualche tempo, tra l’altro, quelle voci si erano fatte sentire in senso letterale sotto forma di veri e propri accordi musicali che si ripetevano incessantemente. Ne aveva parlato con l’amico Lawrence, sensibile uomo di fiume del basso Polesine, di pelle chiara e di solitari orizzonti, con il quale aveva una relazione da qualche anno. Lawrence, la raggiungeva spesso al lago, dove trovava con Beatrice e l’ambiente circostante un’intesa perfetta, anche se tra i due non si era mai parlato di progetti per il futuro.
«Amore non ti sembra di sentire una musica provenire dalla torre?…» – gli chiese una sera mentre passeggiavano nella stradina sterrata fra i vigneti. Lawrence si era girato verso la torre di San Martino che brillava con le sue luci intermittenti in ricordo dei soldati caduti nelle guerre di Indipendenza. Nelle “vene” del territorio su cui sorgeva scorreva ancora il loro sangue e, nei prati, sbocciavano in giugno certi fiori vermigli che i botanici avevano catalogato come specie endemica delle colline moreniche.
«Io non sento nulla, tesoro, all’infuori dei versi degli animali notturni…».
«Non è possibile che tu non oda questi accordi che si ripetono continuamente. Sembra quasi che qualcuno stia imparando a suonare una nuova sinfonia…».
L’uomo continuava a non udire e Bea non aveva insistito perché temeva di essere presa per visionaria. Ma, nei giorni successivi, aveva cercato di acuire i suoi sensi e di concentrarsi di più su quella strana musica con lo scopo di capire se fosse reale oppure una suggestione della mente e del magico territorio che la circondava. Del resto, sulla collina, quanto a suggestioni non c’era che l’imbarazzo della scelta. Di fronte si poteva vedere la lingua di terra incantata di Sirmione protendersi nel Garda con le grotte di Catullo, proprio dove la sorgente calda della Boiola elargiva benefica acqua termale, conosciuta fin dai tempi in cui il poeta cantò l’amore per Lesbia. Ancora più ad ovest si vedevano l’imponente Rocca di Manerba, il golfo di Salò, l’isola del Garda con lo straordinario orto botanico e la villa dei conti Borghese-Cavazza, protetta da una singolare draghessa di pietra. Il Vittoriale di D’Annunzio emanava il gusto decadente del Vate, con le sue storie d’amore e di guerra, di poesia e di morte. Ad est c’erano invece panorami più selvaggi dominati dal laghetto del Frassino, piccolo specchio d’acqua immobile e antichissimo.
Bea sentiva le presenze, le voci, respirava le atmosfere evocative di chi l’aveva preceduta in quelle terre, ora così dolci e tranquille, ma che un tempo erano state selvagge e insidiose. Sempre però di una bellezza sublime. Proprio il laghetto e i vigneti che lo circondavano erano i luoghi che più attiravano la sua attenzione. La sua speciale sensibilità. Bea vedeva e udiva ciò che agli altri solitamente sfuggiva. In questi luoghi, erano vissuti i paleoveneti nell’allora silva lucana, un bosco fittissimo abitato anche da belve feroci.
Nel laghetto già nell’età del Bronzo l’uomo aveva costruito un villaggio palafitticolo durante l’era denominata dagli storici Peschiera–Zeit. L’area dell’antica Arilica era interessata inoltre da altri sei villaggi palafitticoli i cui resti erano stati scoperti a metà dell’Ottocento dagli austriaci in coincidenza del rinforzo dei bastioni. L’uomo antico aveva dunque costruito una palafitta nel laghetto del Frassino dove il fuoco ardeva sempre sulla riva all’imbocco del pontile. In quei luoghi seducenti la vite nutriva le sue radici con la linfa degli antichi abitanti che avevano lasciato numerose testimonianze della loro presenza.
Ogni qualvolta i contadini rincalzavano i vigneti spuntavano selci affilate che erano state punte di freccia e rudimentali coltelli, pezzi di terracotta appartenenti ad olle cibarie, frammenti di osso e pietra istoriati, ornamenti delle preistoriche abitazioni delle colline del basso lago. Nelle sere tempestose Bea guardava il lago montare rabbioso e sentiva il ruggito dei leoni, vedeva i fuochi accesi davanti alle palafitte e gli uomini affannarsi per non farli spegnere nemmeno sotto la pioggia. Sentiva però, pur nella furia del vento e del cielo, l’armonia della natura, in equilibrio perfetto uomo, animale, sasso, acqua. Ogni elemento, ogni parte di essa era integrato. Quegli uomini e quelle donne le insegnavano il coraggio del vivere. E nelle notti di bufera udiva il rincorrersi delle note che si ripetevano all’infinito. Aveva intuito che in esse risiedeva il potere dell’uomo sugli elementi naturali. Erano gli stessi accordi, probabilmente che, suonati con strumenti primitivi in tempi arcaici, avevano permesso agli antenati preistorici di sopravvivere, governando con saggezza la natura.
Quegli antichi sapienti avevano scoperto che il ritmo della musica poteva creare onde magnetiche in grado di spostare la materia. Gli elementi primari, acqua, fuoco e terra rispondevano alla seduzione dell’armonia. L’acqua mutava le quote altimetriche, l’aria raccoglieva l’umidità per poi dissetare la terra. Il fuoco poteva essere incitato ad ardere più alto anche con la pioggia. E la terra, le pietre, le colline, le montagne potevano essere plasmate. Uno straordinario potere avevano quelle note, conosciute agli albori della civiltà, un segreto che si era tramandato in epoche successive in tutte le latitudini tra gli uomini che vivevano, rispettandola, in stretto contatto con la natura, come gli aborigeni australiani o gli americani originari. In tempi recenti solo pochissimi illuminati ne erano a conoscenza.
Proprio dalle colline dove si ergeva la Torre, provenivano da anni, in certe sere di giugno, echi di canti lontani misti a urla di dolore a rumori di ferraglia, a cannonate e spari. All’inizio Beatrice aveva pensato si trattasse di cacciatori che sparavano a fagiani e lepri che ancora vivevano numerosi ai piedi delle colline. Poi, invece, sempre più, aveva isolato gli spari della caccia da altri suoni meno nitidi. Un bisbiglìo incessante, sussurrato e portato dal vento, ogni tanto le faceva udire strani colloqui circa strategie militari, attacchi e scontri bellici. Poi cannonate e urla di morte improvvise, scalpiccìo di cavalli. Aveva riconosciuto, a poco a poco, in quegli echi lontani le vicende cruente accadute più di un secolo prima durante le guerre d’Indipendenza.
Sulle colline il 24 giugno del 1859 si erano fronteggiati con i loro eserciti tre potenti: Napoleone III, Francesco Giuseppe, Vittorio Emanuele II. La Torre, eretta per onorare la memoria di Vittorio Emanuele II e di quanti avevano combattuto nelle Campagne dal 1848 al 1870, sorgeva sul colle più alto di San Martino. Maestosa, all’interno di un parco secolare, realizzata grazie ad una sottoscrizione nazionale, era stata inaugurata il 15 Ottobre 1893 alla presenza di re Umberto I e della regina Margherita. Nel museo, alle spalle della Torre, vi erano in mostra cimeli e documenti che ricordavano la sanguinosa battaglia del 1859 e altre testimonianze risorgimentali. Allestito nel 1939, era ospitato in tre sale nelle quali erano esposte armi e divise, carte topografiche dell’epoca e alcuni cannoni impiegati nella battaglia.
Fu proprio durante una visita al museo in compagnia di Lawrence che Bea ebbe la certezza che quelle note la stavano chiamando. E, anche se il suo compagno continuava a non udire nulla di insolito, la donna capì che qualcosa di importante stava per accadere. Qualcosa che avrebbe cambiato radicalmente la sua vita e, forse, quella di molti uomini.
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