Accademia Nero su bianco

Il Gabbio di “Quello”. Un racconto breve con la suspence del Giallo di Lucio Matania

Lucio Matania – La camerata era immersa nel buio e tutti dormivano.
Tranne il bambino del penultimo letto.
Come succedeva spesso si era svegliato di soprassalto col cuore in tumulto e un senso di angoscia.
Anche stavolta aveva pianto lungamente in silenzio con la testa sotto le coperte per non farsi sentire dagli altri, chiedendosi perché nessuno gli volesse bene e perché l’avessero messo in quel posto terribile.
Il “Gabbio” era gestito in modo autoritario, militaresco, in un clima di paura dove i nuovi erano vessati da quelli che erano più forti e grandi e lui era tra i più piccoli.
Ma stranamente il bambino stavolta non si era riaddormentato.
Un pensiero si era insinuato nella sua testa e non riusciva più a smettere di ragionare e a pianificare.
Una nuova sensazione.
Come se fosse scattato un interruttore dentro la sua testa.
Una rabbia crescente.
La scarica di adrenalina gli aveva procurato una sensazione di benessere fisico.
Gli pareva di aver acquisito una forza sovrumana.
E per la prima volta nella sua breve vita si sentiva vivo e felice.
E nel buio sorrise.
Il sorriso lo accompagnò anche dopo la sveglia delle 7 dell’odiato Silipo, l’adulto responsabile della camerata.
Ma nessuno notò questo suo cambiamento.
Chi mai lo aveva guardato in faccia se non di sfuggita?
Lui era il bambino invisibile.
Il bambino che nessuno era mai venuto a trovare, nonostante fosse uno dei pochi che avesse dei parenti.
Il bambino che non aveva amici.
Che non si raggruppava a fare capannello.
Che non giocava mai a pallone con gli altri nel cortile.
Che non sghignazzava come tutti quando Dado, il capo o Micio, il suo braccio destro, vessavano i nuovi arrivati.
Che leggeva tutto il giorno i libri della biblioteca seduto da solo in un angolo del cortile.
Neanche più lo picchiavano, il suo atteggiamento così apatico non dava alcuna soddisfazione ai prepotenti.
Non era degno neanche di avere il soprannome come tutti gli altri.
Diverso, asociale,
se proprio dovevano parlare di lui, allora lo indicavano e dicevano:”Quello”.

“Ciao, per piacere ce l’hai un pezzetto di sapone da prestarmi ?” Clodo era al ” gabbio” già da cinque anni e, come tutti i veterani era al 6°, dove c’erano i più grandi, quelli che frequentavano le medie.
Stava finendo di asciugarsi dopo la doccia, ed era convinto di essere da solo nel bagno.
Chi aveva parlato? Una voce dolce, gentile, tutti erano soliti esprimersi in modo tagliente, ad alta voce e con atteggiamento arrogante… Ah adesso l’aveva visto.
Era nascosto dietro i lavandini? Il bambino strano. Del 2°.
Si era stupito .
Nessuno parlava con gli “altri”.
Le camerate nell’orfanotrofio erano due per ogni piano con ventisette letti ognuna.
Occupavano i primi tre piani mentre nell’ultimo c’era la direzione. Al piano terra la mensa.
le aule e la palestra erano in un altro edificio identico oltre il cortile.
Ogni piano aveva il bagno comune per le due camerate ma veniva utilizzato a turno.
La regola era di non comunicare tra camerate.
E tanto meno tra piani diversi.
Nella mensa mangiavano tutti assieme ma in sei tavolate diverse.
Quel bambino l’aveva notato perché mangiava sempre da solo, in fondo al suo tavolo, lontano dagli altri .
Non l’aveva mai visto parlare con nessuno.
“Ah sei tu! Che cazzo ci fai qui? “, istintivamente gli porse il sapone. “Grazie. Te lo riporto dopo ” te lo puoi tenere. Ne ho un altro” .
Si era abbassato un attimo a raccogliere l’asciugamano che era scivolato a terra “.
Hei! ma che ci fai qui al…” ma il bambino era sparito.
Come aveva fatto?
Clodo era il braccio destro di Vinco, il capo del sesto. Che poi era il capo riconosciuto di tutti perché era il più violento.
Tutti sapevano che era stato lui l’anno prima ad aver pestato brutalmente Topo, il più grande e grosso del collegio, che aveva osato insidiarlo, e che poi era morto in ospedale. Ma nonostante il tragico episodio il “nonnismo” imperante non era stato minimamente intaccato.
La verità era che il sistema era tacitamente approvato dalla direzione che evidentemente lo reputava un modo efficace per mantenere ordine e disciplina.
Quando morì Topo ci fu una inchiesta interna da farsa, dove Silipo e gli altri guardiani presero a sberle tutti per farsi dire come erano andati i fatti, anche se lo sapevano benissimo. Nessuno fiatò.
Naturalmente misero tutto a tacere raccontando che il ragazzo aveva un difetto congenito al cuore mai riscontrato prima e che, in occasione di una corsetta nell’ora di ginnastica…
Clodo decise di tenersi per sé l’incontro con “Quello”e non dire niente a nessuno. Se lo avesse saputo Vinco avrebbe passato guai seri.
In camerata erano spariti degli oggetti personali e non si era capito chi fosse il ladro.
Sicuramente un intruso avrebbe potuto essere un valido sospettato.
Ma perché non aveva neanche pensato di fermarlo e perché era così sicuro che ” Quello” non c’entrasse niente coi furti?
“Prima o poi lo becco da solo e gli chiedo spiegazioni” si disse.

La settimana prima erano stati adottati quattro bambini e quindi si erano resi disponibili quattro letti e il “comitato d’accoglienza” era pronto a ” battezzare” i nuovi che sarebbero arrivati di domenica come al solito.
La prassi era che questa operazione fosse gestita dal gruppetto della 2ª camerata che era responsabile di tutto il 1° piano.
In fondo al cortile, vicino all’altro edificio adibito a scuola, erano riuniti in cinque.
oltre a Dado, il capo( grosso e massiccio si era tatuato il disegno di un dado sulla mano destra ) c’era Chiodo (chiamato così perché era alto e magrissimo), il Seta (il cui vero nome era Sergio Taretti), il Rosso (per il colore dei capelli), Bobbi (Roberto) e Nedo .
Le gerarchie erano importanti e quindi Dado doveva parlare senza essere interrotto.
“… coi nuovi ho detto che nessuno li tocca e gli parla senza che lo dico io capito?… Se qualcuno sgarra gli faccio un culo così… ” tutti fecero un cenno di assenso.
“se succede ‘na roba come quella del Rosso vedete cosa vi succede… ” (l ‘ultima volta, un mesetto prima, uno dei nuovi che il Rosso aveva sgambettato di sua iniziativa durante l’intervallo, aveva reagito sferrando un fendente e per poco non gli colpiva l’occhio con una penna. Gli era rimasto una vistosa cicatrice sul sopracciglio).
Tutti annuirono.
“bene, allora siamo d’accordo. C’è qualcosa da dire?” Dopo un attimo di silenzio generale Chiodo chiese “sì ma dov’è Micio?” “Fatti i cazzi tuoi. Di Micio non te ne deve fregare nulla.” .
Proprio in quell’istante si sentì del vociare e videro tutti correre verso l’entrata del Gabbio.
Anche loro corsero ma videro che la squadra dei vigilanti non faceva passare nessuno e Silipo che si sbracciava e che urlava “Non c’è niente da vedere…state lontano”
“ma che succede?” Chiese Dado “niente niente state indietro” .
L’ambulanza arrivò in pochi minuti e solo molto più tardi si seppe cosa era successo.
Micio era stato trovato svenuto all’entrata della 6ª camerata. Aveva quattro dita sanguinanti senza l’ultima falange e tre moncherini erano per terra. Uno era rimasto ancora appiccicato al bordo della porta.
Micio non ritornò mai più al gabbio.
Non seppe mai spiegare perché fosse salito al 3° piano né che ci facesse all’entrata della camerata 6.
E cosa gli fosse successo rimase un mistero anche per lui.
Nessuno mai capì esattamente la dinamica dell’incidente.
Qualcuno azzardò l’ipotesi che Micio fosse il ladro che tutti cercavano, anche perché dopo non si verificarono più furti, e che qualcuno l’avesse punito schiacciandogli violentemente le dita intanto che stava furtivamente entrando.
La dinamica risultava molto laboriosa.
Forse qualcuno da dentro aveva socchiuso la porta bloccandola con un fermo e aveva spento la luce? E quando Micio era entrato con la mano nella fessura della porta semiaperta per accendere l’interruttore, aveva sbattuto a tutta forza la porta?
Ma chi? Tutti quelli del 6° risultavano in cortile al momento dei fatti.
Solo Clodo (all’anagrafe Clodovico Micol) sapeva.
Un indizio rivolto proprio a lui e che solo lui avrebbe potuto capire.
Ancora oggi dopo cinquant’anni neanche sua moglie sa perché conserva come una reliquia quel pezzettino minuscolo di sapone che trovò quel giorno sul suo comodino.

Già dopo due mesi la gestione di quello che le istituzioni chiamavano ICAF (Istituto caritatevole del fanciullo) e che tutti chiamavano (anche in città) “il Gabbio”, divenne fuori fuori controllo.
Qualcuno delle alte sfere fece dimettere il direttore, un certo Don Silvio, che quasi nessun bambino aveva mai visto al Gabbio.
Il sostituto fece il direttore per una decina di giorni, ma si dimise subito perché non in grado di porre rimedio al caos. Nessuno più ubbidiva agli ordini. Anche Silipo si era calmato, dopo che si trovò tutte quattro le gomme della macchina squarciate e il parabrezza sfondato da un grosso mattone di cemento. Anche in quel caso senza il minimo sospetto.
La sequenza dei fatti che portarono alla chiusura dell’ ICAF fu impressionante.
Dopo neanche una settimana dal caso Micio, in rapida sequenza capitarono due fatti dirompenti.
Tarzan e Diabolik, i due capetti del secondo piano, erano stati vittime di due “incidenti” sospetti nel giro di pochi giorni nonostante le punizioni collettive e la vigilanza ossessiva da parte degli adulti e delle guardie. Il primo in palestra dove si allenava alle parallele come suo solito da solo. Si ritrovò coi tendini del piede gravemente lesionati dopo che, a suo dire, qualcuno aveva spostato una delle due sbarre nel momento del volteggio facendogli mancare l’appoggio. Non era stato in grado di identificare nessun colpevole .”Un’ombra, non ho fatto in tempo a vedere nessuno”. L’ altro con il braccio fratturato in più punti dopo una caduta rovinosa dalle scale. Anche lui sosteneva che qualcuno l’avesse spinto con violenza mentre scendeva. E anche lui non capiva chi fosse stato.
I fatti accaduti sortirono un effetto a catena impensabile. Al secondo piano nessuno voleva fare più il capo e tutti i bambini delle due camerate più piccoli erano felici e contenti.
Al primo piano la situazione si somigliava.
Dado, dopo l’eliminazione di Micio si ritrovò isolato. Sia il Rosso sia Chiodo non gli rivolgevano neanche più la parola.
Lo ritenevano colpevole di aver avviato lui tutto sto casino. Loro sapevano che lui sapeva che Micio fosse il ladro e comunque l’aveva sempre protetto, anzi forse agiva sotto sua commissione.
Anche al primo piano più nessuno aveva intenzione di rischiare la punizione
del fantomatico “giustiziere” … o dei “giustizieri”?
E anche al primo il clima era molto più gioviale e spensierato.
Addirittura anche Livio, che tutti fino a quel momento avevano chiamato Quello, sembrava sorridere e quando Clodo gli passava vicino sembrava quasi che gli facesse l’occhiolino… ogni tanto parlava con gli altri. Neanche Dado lo chiamava più “Quello “.
Al terzo piano i fatti si risolsero diversamente.
Vinco fu vittima di un vero e proprio pestaggio collettivo organizzato da Clodo con tutti gli altri del suo gruppo. E anche Vinco, dopo, capì sulla sua pelle che non solo erano cambiate le gerarchie ma proprio le regole erano cambiate e il vecchio sistema non si sarebbe più potuto instaurare.
Dopo questi fatti la decisione di chiudere l’istituto fu presa in pochi giorni.
I bambini furono smistati in altre strutture, anche con trasferimenti in città molto lontane.
Pochi oggi sanno la storia del Gabbio.
Nessuno lo chiama così da tantissimo tempo.
L’edificio che lo ospitava e quello gemello, dopo una chiusura decennale e una ristrutturazione radicale, oggi, ospitano una scuola professionale e dei laboratori di ricerca e degli uffici.
Gli avvenimenti passati dentro al Gabbio hanno lasciato indubbiamente un ricordo indelebile nelle persone che l’hanno frequentato.
E chissà, forse qualcuno si ricorda ancora di Dado, Silipo, Topo e gli altri. Magari anche di Livio.
E forse neanche solo con dolore, perché quando si è piccoli e disperati anche un barlume di felicità è importante .
Chissà che fine hanno fatto tutti?
Chissà se nella vita qualcuno si è rincontrato e si è parlato ancora della vita al Gabbio?
Una cosa è certa.
Clodovico non si scorderà mai di “Quello”, il mitico Livio, che ha tanto cercato ma non più ritrovato. Ma che ha sempre nel cuore.

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